PER FRANCO LOI

Pubblichiamo un ricordo di Franco Loi che Vincenzo Guarracino, giurato storico di PontedilegnoPoesia, ha scritto per MirellaCultura “con grande tristezza, certo, ma con l’animo colmo anche di riconoscenza per la consolazione che sa darci il suo ‘messaggio’ umano e poetico”.

È uno degli ultimi grandi testimoni di una stagione forse irripetibile della poesia italiana, Franco Loi, sicuramente tra i maggiori poeti italiani neodialettali dell’ultimo mezzo secolo, assieme ad Albino Pierro e a Tonino Guerra: con una sua precisa peculiarità, quella di aver saputo fare scelte forti e controcorrente (non è un caso che uno dei suoi testi più significativi si intitola Liber, “libro” ma anche “libero”), sempre però con estrema mitezza, coniugando passione intellettuale e civile, attenzione a un mondo di verità e rispetto delle ragioni profonde dell’io.
Nel teatro di una situazione quale è quella italiana a partire dalla fine degli anni ’60, per lui, di origine sarda ma vissuto a Genova e poi a Milano, il dialetto milanese, quello parlato nella Milano degli anni '20-'30, diviene una sorta di lingua utopica, l’adozione di un punto di ri-partenza, più che da un luogo originario, da una sorta di identità comunitaria, dove si può esprimere la purezza.
È da qui, da questa scelta, salutata fin dagli inizio degli anni ’70 da vivi consensi, anche se non senza contrasti, che ha preso l’avvio un’avventura perseguita con grande coerenza e coscienza, in cui nel tempo ha trovato espressione una profonda coscienza storica assieme a una grande sensibilità letteraria, su una tastiera stilistica estremamente duttile e variegata, di volta in volta realistica, orfica, epica, lirica, sempre fedele alla sua anima profondamente popolare, a una religio delle cose e degli uomini, visti nella loro concretezza e al tempo stesso lievitate con naturalezza, in virtù di un empito di emozione, in “belessa sena feng nel so pensàss” (“senza finzioni nel suo riflettersi”), così come è condensato in un distico di Umber (Manni, 1992): “Sunt un puèta quand el dì l’è sera, / che véd sa la belessa in due la gh’era”.